Nei RI-quadri
così come ogni scrupolo il desiderio
Non c’è sovranità se non si recupera il desiderio con scrupolosa attenzione.
La sovranità del pensiero, la libertà di raccogliere sensazioni e di trasformale in emozioni è un apprendistato poetico, ed è quello che osservo e sento nel vedere quello che l’amico e compagno di molte avventure ci mostra in questa estemporanea affermazione di un corso, che, senza dubbio, si compone e ricompone in un attenta e intricata immagine della sua arguta conoscenza.
Quando Angelo mi ha chiesto di scrivere qualcosa per presentare questa sua installazione, l’accettare è stato un piacere, ma non solo per l’amicizia che ci lega, ma per quanto il poter dire, continuare a dire, quello che da sempre abbiamo scritto e detto nelle nostre analisi critiche. Ma sento anche la necessità di affrontare queste sue “immagini” come spettatore e dialogare con lui senza le “giuste” parole, ma solo con il sentimento che ci unisce. E allora non scriverò come il mio solito, ma con una melodia invisibile in cui si alternano parole a silenzi per suggerire a l’anima una “voce” diversa, forse elementare, ma dialetticamente legata ad una armonia che non si sente ma si sa che c’è.
…È da un po’ che guardo, forse i paesaggi e l’azzurro che sembra troppo e anche lo sguardo che rincorre la strada che sale a mezzacosta. Le foglie come piccoli accordi battono sulla stretta dimensione senza alcun rumore. Lo spazio lieve apre tra due alberi e la cornice riquadra l’ombra blu, rossa, quasi viola.
Per rendere ai paesaggi il rumore e si racchiude a riempire per forgiare fresche valli e orizzonti piccoli e lontani. Melodia docile, saltellante tra fessure immediate in misure decise, una vicino all’altra come l’antica voce del cielo o del vento. Ecco, ora, le dune dei campi con olivi e viti; strati di matita e colore, gessi e smalti su l’acqua a getto come pioggia estiva, ecco altro scenario come una quadratura essenziale per udire il sussurro della terra. Così si compone tutta la strada immediata su una striscia di parete; come il ricordo estivo, una musica dolce che conosce i quadri, le veloci pitture ad aria aperta… una letteratura.
Consciamente alzai gli occhi sopra alte visioni e ricomposi la vista in strette fenditure; erano vedute, forse lontane, ma senza dubbio ombre della stessa teoria: posizioni ai confini tra l’agile forma spaziale e il naturale avvolgimento della sua compenetrazione nei ricordi consacrati all’atmosfera. Ed è quello che si vede … li segui come si segue un miraggio, sono i tasselli preziosi di un mosaico panoramico sistemati davanti alla vita. Quello che vedo è come un torrente distribuito a frammenti, sono come stanze in raccolta e riprese in istantanee fatte nello spazio dove si chiudono le forme, e le vedi tutte insieme, tutte vicine, ma in uno sguardo rapido che traduce l’infinito in piccole finestre assemblate a schiera come ad accendere segni plastici.
Si aprono al cielo come spettri multicolori, dove il tepore del segno lascia fiorire luoghi, paesaggi e cose introdotte in profili in altri miti. Un tocco, un sibilo inesistente ma insistente fino a nenia perturbante, tanto da delineare lunghe scene che spariscono nella loro stessa solitaria ricomposizione, sono acque e strade fronde e strisce colorate, ombre graffiate e mollemente adagiate, come fiori secchi o incerati dal tempo, come reti di canali svuotati dal troppo pieno e ricolmati da silenti tratti in verdi riflessi con azzurri e pastelli, colori all’ombra del disegno e cornici bianche e spessori ocra, come vesti corte a ri-coprire confini di campagne… paesaggi inscatola pronti all’uso… profondo melodramma di una sola sensazione, la sua.
Ai limiti di ogni proprio confine, ogni piccola fessura si inerpica in spazio invisibile, in campagne bizzarre, annerite fin troppo da altre sollecitazioni formali, poi riscendono, RI-fluttuano come sigilli preziosi in scrigni chiusi. Distinti fino a trasparire altre aridità meridiane, per poi mute come note accorciate in armonie dodecafoniche, quasi a sfiorare l’essenza stessa della forma, si alitano in melodie. Tutto è attorno allo spazio, alla partenza di immagini velate da un solo vissuto; libero di accostarsi al vero… ero libero come ero solo nella variabilità del sole. Spazio predisposto da una nebulosità chiaroscurale in cui riposa la geometria essenziale, descrittiva quasi a formare trasparenze e argentei riflessi tra cristalli scoperti e richiusi in vibranti oscillazioni; ancora chiusi, impacchettati per viaggi in vigilia di assenze.
Sentivo i passi, ci accompagnavano come a sorprendere la nostra frangente riflessione, specchiando il vetro lo scorcio diventava passeggiante, paesaggio in confine, quasi un angolatura rasente parete e spazio, sentivo il suo passo, i suoi segni e le sue copie, la sua lontana memorizzazione di un istante. Ripetevamo in un breve volteggio il silenzio e la melodia… era dal vero!
Angelo Minisci è un artista e un critico delle cose, un designer che modella con l’essenza la sua creazione, o meglio, le sue creazioni, che sono molte e conosciute, ma ci sono anche parole che non dice e che preferisce lasciarle nell’oblio di sé, nella momentanea liberazione che trattiene dai colori e dai segni. La sua abile e raffinata preparazione gli rende facile il “nascondiglio” di quei luoghi che predilige e lascia che si ammontino come tracciati compositivi, ma disordinati, quasi confusi, ma in piena armonia tanto da dedicarci riprese letterali, frammenti sentiti in solitudine e da questi ricorrere a decifrabili composizioni in un dionisiaco “libro d’artista”. L’orfismo di Angelo non ha un carattere decifrabile, ma vive di tentazioni comprensibili al limite di un crepuscolarismo sensitivo, per poi gettarsi subito in uno schema compositivo al pari di una geometria funzionale, appartenenti a una visione naturale in confidenza con forme manifeste.
L’dea è iniziale e come inizio già si configura in un possibile altro progetto, ma non nel suo riconoscibile espediente figurativo, ma quanto nella trama di quel racconto che non appare e rimane sospeso tra l’idea e la forma, perché è pur sempre un segno che vive un criterio trasfigurato dalla sua stessa impostazione e proprio per questo ideale, dalla sua idea e così rimane pro-memoria di un infinito svolgimento; il componimento esistenziale che traduce il silenzio in pura bellezza.
“…Qualche cosa in noi si schianta, qualche cosa che il nostro amico direbbe: cuore. “
(Da soliloquio delle cose di Sergio Corazzini)
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Massimo Innocenti